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Il ruolo dei missionari non è sempre lo stesso.

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Come scrivevo nel precedente post, il ruolo dei missionari in Africa non è sempre lo stesso. La prima settimana di permanenza l’abbiamo trascorsa a Koungheul, un villaggio abbastanza grosso nato intorno all’unica strada (“autostrada” non posso scriverlo di una strada a singola corsia per senso di marcia…) che parte da Dakar e attraversando l’intero Senegal continua verso il Mali.

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A Koungheul esiste la scuola (vecchia, ma esiste e quello nella foto un po’ mossa, accanto a me, è un insegnante con cui ho chiacchierato per una buona mezz’ora) e anche una piccola infermeria gestita dalle suore (nella foto vedete un bambino col termometro nel sedere che non potete immaginare quanto urlava!). Esiste anche un piccolo mercato che non ha le condizioni d’accessibilità o igiene paragonabili ai nostri ma è pur sempre un luogo in cui si può vendere e comprare ciò di cui si ha bisogno.

A conti fatti, nonostante la carenza di cibo e d’igiene, ci si accorge dopo pochi giorni che si tratta di un villaggio avviato, che funziona. C’è chi produce il pane, chi svuota i pozzi neri (le fosse in cui fanno i loro bisogni), chi ripara le gomme e il fabbro che realizza ciò che serve. Il ruolo di una missione, avviata quasi trent’anni prima, così, è ormai di sostegno ma non di gestione.

I padri missionari che vivono lì organizzano come in qualsiasi parrocchia l’attività pastorale, parlano coi giovani e con le famiglie. E’ un ruolo importante e pur sempre “missionario” (visto nel senso religioso del termine) ma non deve andare oltre.

Proprio con uno di quei padri, un pomeriggio discutevo di quest’aspetto. Probabilmente la missione a Koungheul deve riuscire a fare un ulteriore passo indietro. L’emergenza nera, quella in cui un bambino su due muore di stenti non è più presente (o, almeno per ora, è abbastanza stabile) così se si vuole davvero concedere una crescita all’Africa la strada è quella di darle il volante in mano.

Bisogna creare animatori, responsabili di associazioni impegnate nella comunità e bisogna fare in modo che non siano i missionari al vertice di tutto. L’autosostentamento è un passo importante verso l’emancipazione di un villaggio. Instaurare una catena culturale interna che possa sopravvivere senza l’intervento di entità esterne (per quanto fossero integrate le suore… sempre bianche venivan viste!) è fondamentale per garantire una crescita.

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E’ l’ennesimo processo lungo da pianificare nel tempo. Non è facile individuare le figure, non è facile far capire che progettare attività per i giovani può portare ad un miglioramento generale del villaggio e ad un progresso che, a quel punto, sarà il più bello e trasparente possibile. L’Africa seguirà i suoi stili ma segnerà – al contempo – dei passi in avanti.

A Dakar, in realtà, la situazione è decisamente diversa. L’aria di città si respira (nonostante sia IL caos) e così un ambulante che sapeva parlare inglese mi raccontava che i giovani in quelle settimane avevano organizzato dei cortei contro l’attuale presidente che stava sfruttando le leggi per portare avanti i suoi interessi personali (l’ho già sentita questa storia…). La maglietta che vedete in foto è quella che hanno utilizzato per manifestare e ridicolizzare la sua figura.

Ovviamente non si può generalizzare questo discorso ad ogni zona dell’Africa perché è così grande e diversificata che le necessità possono variare in maniera considerevole facendo appena 50km (c’è una altissima variazione della qualità della vita da un paese all’altro, fenomeno che in Europa è decisamente più mitigato) ma non mi sembra neanche responsabile far vedere solo il lato dell’Africa più compassionevole e che, possibilmente, genera più commenti del tipo “oh poverini…”.

Emanuele


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